Pubblichiamo un estratto della Tesi di Laurea Magistrale Sentirsi disumani: vita, processo, voce nell’opera di Sandro Penna, a cura di Davide Cortese (Università di Genova) e di prossima pubblicazione.
Il torvo processo che si muove instancabilmente nell’interiorità di Penna è il punto, forse, più estremo a cui può arrivare una categoria dal retroterra metafisico formulata a un tempo da Joseph De Maistre e adottata e adattata da Baudelaire al rapporto che stringe amante e amato: la «reversibilità» (Calasso). Non è un caso, infatti, che Penna faccia riferimento al topos della battaglia in alcune poesie («Una guerra amorosa e spietata/contro i fanciulli un dì condussi» PPD, p. 502). Occorre, tuttavia, levare la lucentezza di cui Penna abbiglia questo luogo dell’amore poetico e seguirlo nel suo risvolto più duro. La «amorose battaglie senza amore» condotte contro i fanciulli hanno tutt’altri termini: la «reversibilità» in Penna non si configura secondo la versione fornita dalla poesia omonima del francese, ovvero nelle «preghiere» che l’amante chiede all’amata dalla sua difficoltà, ma nella formulazione più radicale che Baudelaire concepisce in À celle qui est trop gaie: «quando l’amante, per rendersi complice l’amata, è pronto ad aprire in lei “una ferita larga e profonda”, dove “T’infuser mon venin, ma sœur!”». Se una tale formulazione può apparire eccessiva, tanto più che Penna ostinatamente cerca di smarcarsi dalla dipendenza che lo tiene inchiodato a Ernesto («fate che io sia solo al mondo, tutto in me») e ha sempre una parola o una scena positiva ad accompagnare il fanciullo, un passo di una prosa, dal titolo più che emblematico, Verità (PPD, p. 671), fornisce ulteriori precisazioni in proposito. Si tratta di un testo accolto e pubblicato per la prima volta in Un po’ di febbre, ma che alcuni elementi presenti nella parte incipitaria, tutta rivolta alla descrizione del «fanciullo divino», fanno balenare l’idea che vi sia almeno una comunicazione con i primi anni Trenta, se non la diretta composizione:
Ma non potrai amar me. Forse sei il più lontano da me. E sarai l’ultimo a capire queste tue bellezze. L’ultimo magari dopo la matrona. E io, allora, come farò? Tutto per me il mio amore? Sempre così? Ma perché? La poesia. Ecco la vera essenza. Più soli di un santo! Ma cosa vorrei, infine, da te? Baci non mi sazierebbero. Niente mi farebbe entrare in te, veramente, più di così… A meno che io non ti sbrani. Forse se ti torturassi infinitamente… sarebbe questo l’unico possesso vero. Avrei delle implorazioni da te, dolcezza unica. Saresti più affettuoso che se tu fingessi di carezzarmi in un abbraccio borghese. Imploreresti cogli occhi di lacrime. Ma io non cederei per non fare scemare il tuo amore per me. E che colpa ho io, fanciullo divino, se Natura vuole così? Io non sono cattivo. Questo è l’amore, vieni (PPD, p. 671).
Collocando se stesso e il fanciullo in una simile situazione, Penna non opera un’iperbole di «sadismo», un ornato spigoloso che racchiuderebbe ciò che è stato già formulato altrimenti. Al contrario, l’eccesso, in questo caso, ha un effetto chiarificatore. Il poeta per una volta sgombera la «nube» che attornia le sue immagini e, anche se il condizionale è il modo verbale che possiede l’intero passo, si pone frontalmente rispetto alle principali direttrici della sua opera: il possesso e il desiderio. Partendo dal primo, scartando le più ovvie e superficiali associazioni ovvero quelle di natura esclusivamente sessuale, il rivolgersi di Penna in una allocuzione che si trasforma poi in una sorta di minaccia e di tenebroso invito fa segno verso una questione cruciale: quella di avere una ragione totale sul canto. Per uno come Penna avere il controllo su ciò che origina e attraverso cui si propaga la poesia è di massima importanza. Collegato a un risvolto molto più ampio e decisivo che non la mera compitazione di un testo, come detto, il canto è ciò che permette a Penna di passare all’altra parte di se stesso, ovvero mettere le mani su una configurazione del mondo permeata da un principio di positività: «una strana/gioia di vivere anche nel dolore» (PPD, p. 133). Tuttavia, occorre precisare che il canto è equivalente al pensiero: così come questo non è esauribile dalla mera azione che ne deriva grammaticalmente, così il canto è uno spazio che non si esaurisce con l’azione del cantare (quindi lo scrivere) e né può essere risolto da i singoli e vari elementi che via via si assecondano nelle poesie. Il canto è intermittente e precede tutte le sue manifestazioni, le comprende:
Dominare un fanciullo, ed ascoltare
la propria voce crescere nel canto.
La buia sera nasconde e riunisce.
Assai lontano dorme il fanciullo.
Dominare un fanciullo, ed ascoltare
la propria voce crescere nel canto (PPD, p. 355).
In questa che è la poesia più affine al passo in prosa citato, Penna rende in maniera più che esplicita l’aritmia che intercorre fra l’azione del cantare (assunta metonimicamente dalla «voce») e il canto. Non solo non vi è identità fra i due termini, ma, come detto, il secondo precede il primo e lo contiene. Così come il canto è qualcosa che sta al di qua del cantare stesso, allora vi è una possibilità da parte del poeta di abitarlo, di entrarvi. Attraverso un trine verbale, Penna indica le coordinate affinché questo possa avvenire. Se si prende in esame il primo emistichio del primo verso, il verbo che naturalmente dovrebbe seguire all’azione «Dominare un fanciullo» dovrebbe essere una reazione istantanea e non mediata: anziché «ascoltare», ciò che più ci si potrebbe aspettare sarebbe un verbo come sentire; un verbo, cioè, in grado di mantenere al suo interno un certo grado di passività, di reattività istintiva. Eppure, Penna decide di impiegare un verbo con un forte grado di intenzionalità: «ascoltare», appunto. L’utilizzo di un simile verbo nutre diversi risvolti: allunga la sua influenza su ciò che introduce così come getta la sua influenza anche su ciò che lo ha preceduto e introdotto. Fa segno verso una sorta di previsione che soggiace all’atto del «dominare»: sfocerà in un risultato capace di «crescere» più e più, proprio grazie a un determinato “progetto”. Penna, infatti, non si premura di nascondere la pressione “strumentale” alla quale è sottoposto il fanciullo. Al contrario, mette ben in chiaro che “avere ragione sul fanciullo” non significa trovarsi di fronte a un agire dal quale sgorgheranno, semplicemente, alcuni effetti; semmai, ci si troverà davanti al compiersi di un atto irrinunciabile attraverso il quale si può accedere a un grado ulteriore di esperienza. In altri termini, la dominazione del fanciullo non si appaga e non si esaurisce in se stessa. Fa da viatico, per mezzo del quale Penna può accedere a uno spazio, a una fase della composizione che altrimenti rimarrebbe chiusa.
Ragionando ancora sull’emistichio che apre la poesia, è inevitabile accorgersi di come, solo in apparenza, il distico custodisca una tensione unitaria per tutto il suo corso. Penna si impegna a smorzare e bloccare la consequenzialità incontrollata dei verbi. Come già l’allineamento «dominare» – «ascoltare» presagiva a livello concettuale, ovvero che le due azioni sono collegate ma per vie tutt’altro che automatiche, un espediente formale conferma e occhieggia alla separazione fra l’atto del dominio, più nello specifico il suo oggetto (il fanciullo), rispetto alla prosecuzione del distico. È un dispositivo in bilico fra il sintattico e il metrico quello che Penna attiva per retrocedere il primo emistichio: l’immissione di una cesura, una virgola, preposta alla coordinazione che lo allontana fino a fargli assumere una posizione preliminare. La pausa, infatti, non si risolve solo in un semplice freno del ritmo, ma si configura come una vera e propria interruzione del «trasporto» (Agamben). Più che l’atto stesso del «dominare» è l’influenza provocata dal fanciullo a essere limitata. Come a dire, che il fanciullo necessita di essere mantenuto a una certa distanza, non solo a livello di immagine nella poesia, ma la stessa strutturazione del testo deve lavorare a separarlo dal resto dei versi. La qual cosa, seppure può sembrare esorbitante, a un attento esame non può che trovare conferme un po’ ovunque. Penna, infatti, solo rare volte, e queste coincidono con testi che hanno come spirito una forte carica metapoetica, fa coincidere «apparizione» del fanciullo e “risolversi” della poesia – si prendano per esempio la poesia Un fanciullo correva dietro un treno (PPD, p. 78) o la già commentata La campagna pareva riascoltare un suo segreto. Il fanciullo, altrimenti, assume sempre la posizione di snodo, di elemento necessario ma allo stesso tempo variabile: è l’intera poesia, nel perpetuo oscillare da un polo negativo a uno positivo, che precede il fanciullo e lo scavalca, come imprigionandolo nel suo centro. Del tutto prevista, allora, sarà la comparsa e il relativo bisogno da parte di Penna di sottolineare (come se i sottesi ai verbi non bastassero) per mezzo di un aggettivo possessivo («propria») il comparire della «voce». Tutto questo rimarcare, sia nelle poesie che altrove, la totale personalità del presentarsi della «voce» in grado di occupare lo spazio del «canto» che altrimenti rimarrebbe vuoto e inabitato, non può avere altro esito, in chi legge, di fare serpeggiare nella testa l’esatto contrario. Cioè che nonostante tutti gli sforzi, formali e non, Penna sia sempre in qualche misura espropriato della possibilità di gestire completamente la comparsa della sua propria poesia: che il seme del suo canto sia sempre nelle mani di qualcun altro.
L’azione del torturare il fanciullo, allora, più che essere un tentativo di estorcere l’oggetto d’amore a se stesso (costringerlo ad amare il poeta) è configurabile come un tentativo di sostituzione. Ovvero, provare a colmare la distanza che separa Penna dai suoi «fanciulli adorati sotto il sole»; che non è la sciocca separazione anagrafica, ma è quella di potersi fare esso stesso fanciullo: «divino» nei termini in cui si è espresso più o meno ovunque nella sua opera. Le sevizie sono l’equivalente della ferita e del veleno baudelairiani: attraverso l’emulazione Penna tenta di trasferire, in uno scambio circolare, il suo «dolore» al fanciullo traendo a sé tutte le qualità di cui, da solo, non è in grado di disporre (l’accesso e il dispiegarsi del canto). Il desiderio, infatti, è una struttura parassitaria che trova sempre il modo di scatenarsi e i pretesti per dichiarare guerra a qualcuno. Si nutre delle differenze con ciò che desidera e crea dei doppi. Quando Penna dichiara di non poter parlare d’altro che di fanciulli nelle sue poesie («ma io non so parlare di altre cose./Le altre cose sono tutte noiose/Io non posso cantarvi Opere pie» PPD, p. 274) non intende soltanto togliersi d’impaccio con un’uscita ironica, ma parla nascostamente della natura del suo desiderio: un desiderio che, ovviamente, tende verso un oggetto, il quale, però, ricade alla stregua di un mezzo, e che si finalizza in se stesso. Ciò a cui Penna mira è il canto ininterrotto: senza abbandoni e riprese, senza il meccanismo delle «resurrezioni». Se, però, prima ancora di innescare l’immagine iperbolica del supplizio Penna dichiara già la sua sconfitta (niente lo «farebbe entrare in te, veramente, più di così») allora occorre considerare la “monotematicità” delle sue poesie come una specie di relitto o superstite. In altri termini, l’attenzione completa che Penna ha riservato solo ed esclusivamente al fanciullo è il prodotto del desiderio: quel doppio che si realizza proprio dalla impossibilità di emulare completamente, di sostituirsi a ciò che si brama:
Un amore perduto quanta gioia
di nuove sensazioni in me sorprende.
Ma l’amore è perduto.
E la pena riprende (PPD, p. 132).
È per questo che Penna nel silenzio o, meglio, nel brusio macerante in cui si ostina a soggiornare rivolge le armi contro ciò che gli permette di raggiungere la versione momentanea a cui aspira: un inno, per esempio, sarebbe inutile. L’oggetto del desiderio deve essere smembrato e mangiato prima, affinché le parole si facciano vive. Come per un effetto sacrificale, il dilaniare il fanciullo, come accade con Ernesto, Penna acquista a se stesso l’energia per compiere e scavalcare il “momento dialettico” postulato poco sopra.
SELEZIONE DI VERSI
DA STRANEZZE (Garzanti 1976)
Io vado verso il fiume su un cavallo
che quando io penso un poco un poco egli si ferma.
*
LA BATTAGLIA
«Tua madre è morta,» mi diceva un coro
somesso immemorabile sereno.
«Morta,» mi ripetevo e un lieve riso
di tempi immemorabili sereno
tingeva l’acre angoscia nella luce. «E quello
che fu nei tempi oscuri il grande amico
è forse morto?» «Oh, quello,»
dicevano più cauti, «in due tagliato
da un sol colpo, mai non lo vedemmo
altrimenti piegato.» Ed io baciavo
piangendo i resti di quel panno amico
che ricoperto aveva sotto il sole
una cosa nel mondo mai toccata.
*
DA IL VIAGGIATORE INSONNE (S. Marco dei Giustiniani 1977)
Grava, sulla città, colma l’estate.
Nell’orto di una villa c’è un ragazzo
brutto, che guarda trasognato il suo
sesso innalzato. Indi sospira e prende
di nuovo un suo poeta. E l’ora scende.
*
Fra le case andavo allegro
già pensando a primavera.
Quando a un tratto un grande negro
mi apparì. Era la sera.
L’indomani che a quel nero
ripensavo in mezzo all’oro
del mattino; oh che pensiero
folle entrò nel cuore: un coro
di soldati, tutto stretto
fra le case della sera,
fu il dolcissimo biglietto
che annunciò la primavera?
*
Tutto il giorno passai coi contadini.
Altro non feci che vederli fare.
La sera la vergogna ai colmi vini
mi prese: alla taverna cosa stavo io a fare?
Isolato in un angolo, oh sul muro
leggo atterrito e attratto: «il nostro Sandro
poeta fa l’amore di sicuro,
è sempre solo muto come un mulo».
Senza fiato rimango, ormai felice
di quel che il muro, a me tacendo, dice.
*
DA UNA STRANA GIOIA DI VIVERE (Scheiwiller 1956) / XXVI
Il gatto che attravera la mia strada
o bianco o nero stasera mi aggrada.
Ma non mi aggradi tu stanca puttana:
chiuditi con un altro nella tana.
* Davide Cortese (Genova 1994) ha pubblicato il libro di poesie Il volto indigeno (Stampa2009, Varese 2024). È incluso nell’antologia Planetaria. 27 poeti del mondo nati dopo il 1985 (Taut, Milano 2020). Sue poesie sono apparse su «Bottega di Poesia - La Repubblica», «AlmaPoesia» e «Inverso». È stato finalista al Premio Cetonaverde 2023. Ha pubblicato la monografia Fuori dalla libertà. Bas Jan Ader e i rituali dell’abbandono (Edb Milano 2017). L’immagine è un ritratto originale di Sandro Penna, disegnato dall’autore dell’articolo.
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