Era il 1994. Una mattina partii da Roma che pioveva a montone e atterrai sulle sponde del Bosforo con i gabbiani che disegnavano cerchi nel cielo turchese.
Soggiornai al Pera Palace Hotel, a quattro passi da piazza Taksim, l’ombelico di Istanbul.
L’hotel è un’isola occidentale in un mondo di mille e una luna, tra minareti e incensi. Lì potevi passare dai bucatini all’amatriciana a una mercimek, che sarebbe una zuppa di lenticchie.
Nella hall si mischiavano lingue e abitudini, dai beduini a quelli del Qatar, dai norvegesi ai pugliesi, magari sorseggiando un raki, un’acquavite a base di mais, aromatizzata con anice e menta: ti accoppa.
Beccai un giornalista televisivo italiano che curava un programma alla Quark, quattro chiacchiere per tenersi in allenamento, un caffè, mi sembrò un po’ stanco, era da due giorni a Istanbul e si lamentava del caldo. Comprai le sigarette, costavano uno sproposito, una lucidata alle scarpe da uno sciuscià che sorrideva per far campare la famiglia e via, al casinò.
Vinsi qualche dollaro al poker caraibico e mi scolai mezza abbondante di Oban con uno che lavorava all’Ambasciata francese. Le ragazze erano belle e fumavano solo Camel, chissà perché? I ricchi sono dappertutto.
La mattina seguente mi svegliai prestissimo. Dal terrazzo della mia stanza, vista Corno d’oro, il tempo scorreva eterno, mentre il giorno prendeva forma negli ocra e nei grigi slavati di una città infinita.
La giornata la passai in giro per le vie del centro. Era sabato, l’indomani sarei rientrato a Roma.
C’era Tarkan in concerto quella sera, un cantante molto famoso in Turchia, ci andai volentieri.
Sembrava di stare a uno spettacolo di Madonna in quel cazzo di stadio. Giovani con magliette Benetton, Emporio Armani e Dolce e Gabbana, ragazze di buona famiglia col capo coperto dal fazzoletto anatolico ma scatenate peggio delle fan di Vasco.
Pensai che l’Italia è ovunque e ovunque si sente il bisogno di essere liberi.
Her şey yolunda, va tutto bene.
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