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Il mare / Un racconto inedito di Eduardo De Cunto



Ogni giorno, nella chiesa di quartiere, le vecchie del rosario recitano cinquanta volte la stessa preghiera. I pensionati che fanno esercizio nel parchetto in riva al fiume alzano e abbassano le braccia, inspirano e soffiano, in dieci serie da dieci. Il fiume, ogni giorno, manda a infrangersi sulla rena dodicimilatrecentoquarantatré piccole onde. Ogni sera Mario Stanic apre il quaderno, compila quattro pagine, non una di più né una di meno, e lo richiude. Poi mette a letto Andrea, e gli rimbocca le coperte.

Per la città di Altair, quel cognome, “Stanic”, è sinonimo di scandalo. Mario accetta la diffidenza dei concittadini e vive da eremita in mezzo alla folla. È il prezzo dell’essere rimasto dopo aver tentato di andar via.


Tutto era iniziato con i sogni di Sara, col suo pallore, con il mutismo dei pomeriggi domenicali. Il suo sguardo sembrava trapassasse il corpo del marito, per andarsi a posare su mondi inesistenti.

«Cosa c’è?», si era deciso a chiederle Mario, una di quelle domeniche.

«Niente», aveva risposto lei.

«Cosa c’è?», era tornato a chiederle.

«Niente».

E così per molte domeniche.

Prendeva tempo, Sara. Sapeva che, una volta rotta la finzione, non ci sarebbe stato ritorno.

Ma non poteva prendere tempo in eterno. Così, un giorno, quando Mario le aveva chiesto: «Cosa c’è?», lei finalmente aveva risposto: «Sono i sogni…».

Glieli aveva raccontati (la decisione più pericolosa che potesse prendere). Seguivano più o meno tutti la stessa falsariga: Sara era davanti al mare.

Si dice che i sogni siano costruiti da pezzi di esperienze diurne. Dunque quello era un mistero: da Altair, la “città perfetta”, nessuno esce mai. E Altair non ha mare: è cinta dal fiume Sole, che in quel punto della cartina geografica si biforca per poi ricongiungersi, formando un isolotto sul cui suolo, da millenni, la città prospera. Come aveva fatto a sognare il mare, Sara, se non l’aveva mai visto?

Non era un mare calmo, quello del sogno, ma un mare arrabbiato. Un mare che sembrava aver perso l’imperturbabilità che hanno solo le cose inanimate. Urlava, si agitava, non era in pace. Cosa le stava venendo a dire? Perché batteva sulle pietre i pugni di schiuma? Qual era il rimprovero?

Sara non voleva saperlo. Ma, se a parlare è il mare, è difficile tapparsi le orecchie, non ascoltare il messaggio, fare finta che il tutto possa ridursi a un aprirsi e chiudersi di braccia e susseguirsi di Ave Maria. “Guarda quale forza mi muove”, le veniva a dire, “e tu mi vorresti come un eterno pentolino che ribolle?”.

Nel sogno, Sara si poggiava una mano sulla pancia. Il mare era anche lì, che urlava. Le urlava nella pancia. Era un bambino, e urlava più di quanto suo figlio non avesse mai fatto. Copriva la voce del suo Andrea. Lo sovrastava. Lo annegava.

Come poteva accettarlo, Sara, come poteva mai rimanersene ad ascoltare?

Intanto quello continuava, si gettava con la testa di spuma a spaccarsela sulle rocce, reclamava, le imponeva: “guardami”.

Mario aveva ascoltato in silenzio. Lui il mare non l’aveva mai sognato, e lo immaginava come un enorme fiume che scivola calmo tra le terre.

Ne avevano riparlato giorni dopo. «Uscire da Altair… non si può!», le aveva detto.

«Perché?».

«Nessuno lo ha mai fatto. Sarebbe una follia».

«Allora devo essermi ammalata».

«Non possiamo... C’è Andrea».

Trascorse forse un anno: diciottomila Ave Maria, trentaseimila alzarsi e abbassarsi di braccia, quattro milioni e rotti di piccole onde del fiume Sole sulla rena, millecinquecento pagine dei quaderni di Mario. “Sara è come spenta”, scriveva Mario. “Chi mi dorme accanto è il suo involucro, la sua pelle svuotata del sangue. Lei è lì, su quel pianeta dove vede il mare”.

L’amore porta anche frutti avvelenati: «Andiamo», si decise a dirle Mario, tradendo, per la felicità di sua moglie, quella di Andrea.

Portare un figlio al di fuori di Altair è davvero una follia. Farlo crescere altrove un’ingiustizia. Tutto, ad Altair, è armonia: non vi è conflitto, non vi è peccato, non vi è incertezza. E la città di Altair non pone divieti.

Altair concede ogni libertà.

Eppure gli Stanic si sentivano ugualmente in fuga. Partirono di notte, al lume di una luna quasi piena.

Il Sole si getta in un mare lontanissimo. Tanto lontano che è più facile traversare il fiume da parte a parte e proseguire in cerca di un altro mare, piuttosto che tentare di raggiungerne la foce. Ma come si traversa un fiume che nessuno vuole mai traversare, che lambisce una città a cui non interessa di costruire barche né zattere?

“Forse il fiume mi capirà”, si diceva Sara, mentre lo scrutava nella penombra. Così pensando mise un piede nell’acqua, e poi l’altro. La faccia argentata della luna si ruppe, prese a ondeggiare in tanti frammenti, poi si ricompose attorno alle caviglie di lei.

Mario, per la paura, rimase senza fiato: sua moglie era un’ombra, e aveva deciso di annegare. Corse verso il fiume. Andrea, intanto, dormiva ignaro e calmo tra le sue braccia.

Fattosi più vicino, Mario vide Sara poggiarsi su un sasso, poi arrampicarsi su una montagnola di rena, e così via via proseguire. Era trasformata, sembrava una rana. Il fiume capiva: anche lui attendeva da troppo il suo mare. Era in secca, li lasciava passare. Sara apriva la strada; Mario le arrancava dietro, ogni tanto inciampava; Andrea si era svegliato e piagnucolava per il sonno, ma Sara non se ne interessava.

«Torna indietro», disse lei, approdati al di là del Sole, «non è il tuo desiderio, è il mio. E porta Andrea con te».

Mario insistette, pianse, protestò.

Sara lo accarezzò. Il suo pallore era rotto dalla virgola di un sorriso. «Tu appartieni alla città. Non incontrerò alcun mare, finché mi sarai accanto».


La città di Altair non pone divieti, nemmeno quello di tornare indietro; difatti, l’unica sanzione, per gli Stanic, fu lo scandalo e l’esecrazione. E se il nome di Mario può ancora pronunciarsi, quello di Sara è bandito.

Ogni giorno, nella chiesa di quartiere, le vecchie del rosario recitano la stessa preghiera, cinquanta volte. I pensionati, nel parchetto in riva al fiume, alzano e abbassano le braccia, inspirano e soffiano, in dieci serie da dieci. Il fiume Sole, ogni giorno, manda a infrangersi sulla rena dodicimilatrecentoquarantatré piccole onde. Ogni sera, Mario Stanic apre il quaderno, compila quattro pagine, non una di più né una di meno, e lo richiude. Poi mette a letto Andrea, e gli rimbocca le coperte.

Cosa scrive, adesso? Qualche goccia di pioggia è caduta nell’azzurro dei suoi occhi. Mario sembra accorgersi solo ora che è acqua che proviene dal mare. Dunque scrive di posti che non sono la città di Altair, e che sono bagnati dal mare. Un mare stanco di rompersi la testa sulle pietre e schiumare, ancora e ancora, come un cane alla catena. Un mare che salta, si alza dal suo letto, supera la banchina, e se ne va via.



* Eduardo De Cunto è nato a Benevento nel 1983. Ha condotto studi giuridici e oggi vive e lavora a Bari. Alcuni suoi racconti sono apparsi nell’antologia Come salmoni (Lorem Ipsum) e sulle riviste «Risme», «Voce del verbo», «La nuova carne», «Colla» e «Nazione indiana».

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