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Come uccidere il cervo / Un racconto di Antonio Merola


«Prendi la mira, così… e poi premi il grilletto in questo modo… vedi Arturo? È facile, adesso prova tu, coraggio».

«Ma papà…»

«Mi raccomando, tieni sempre il calcio del fucile contro la spalla, non vorrai forse rimanerci secco tu, spero? Ecco, lo vedi quel cervo sulla riva del lago?» «È pesante».

«Quel cervo è la vita. Fagli saltare il cervello».

Quanti anni ha il bambino? Diciamo cinque. Anzi no, diciamo sette. Adesso è lui che tiene stretto il fucile da caccia Mx 2000 calibro 12 che era stato prima del padre di suo padre e poi finalmente di suo padre e basta – se escludiamo quel breve periodo in cui Agostino Lombardo lo chiese in prestito alla fattoria Marrone per uccidere un lupo magro magro che disturbava le mandrie più giù a ovest, dove cominciano le pianure per il pascolo. Dicevano che si era già mangiato una capra e quattro o cinque pecore, ma Arturo sapeva che il lupo era simpatico: una volta si era lasciato accarezzare. Quando, dove? Non lo so, aveva risposto Arturo: ma mi sembrava simpatico. Era evidente che si trattasse di una simpatia simile a quella che tanto tempo prima avevano provato tra di loro gli antici grechi, però questo il bambino non poteva saperlo. O meglio, sapeva che essere un lupo non doveva essere facile, ma ancora di più sentiva che essere proprio quel lupo doveva essere orribile. Solo che non sapeva ancora leggere bene, ecco tutto. E come se risultare simpatico proprio ai lupi non gli bastasse, ora si era accorto pure del grosso paio di corna che gli era comparso sopra la testa. Agli altri animali dovevano sembrare un’arma micidiale. E, perché no, anche la più bella.

«Cerca di colpirlo al centro degli occhi».

Era troppo facile. Dopotutto, era riuscito bene o male a imitare la posizione del cacciatore. Ecco una cosa che proprio non gli andava giù: che una parte di lui si ostinasse a imitare il prossimo. Aveva imparato a parlare imitando quegli strani suoni che emettevano i suoi genitori e tante altre cose che non avrebbe mai voluto imparare. Era una decisione semplice: uccidere il cervo o uccidere il padre, magari uccidersi, oppure rifiutarsi di uccidere e sparare al sole. Questo significava davvero morire. E in fin dei conti, crescendo, gli occhiali non gli sarebbero stati poi così male.



Antonio Merola è nato a Roma, dove vive e lavora, nel 1994. È incluso nell’antologia internazionale Planetaria – 27 poeti del mondo nati dopo il 1985 (Taut 2020). Ha pubblicato un appassionato saggio su Fitzgerald, l’Italia e la malattia (F. Scott Fitzgerald e l’Italia, Ladolfi 2018) ed è tra i fondatori di «YAWP: giornale di letterature e filosofie». Insieme a Iuri Lombardi e Alfonso Canale, ha curato la rassegna poetica Razzie Barbariche su «Pioggia Obliqua», dedicata alla poesia edita under 30. Le sue poesie sono apparse su siti e riviste letterarie come «L’immaginazione» (312), «Nazione Indiana», «Atelier» (89), «La Bottega di Poesia di Repubblica», «Argo», «Poetarum Silva», «Nuova Ciminiera» e sul numero speciale di «A4 – la rivista su un foglio solo» dedicato alla poesia. Ha svolto attività di critica anche per altre testate: «Altri Animali», «Flanerí» (per cui ha curato la rubrica L’isolamento del romantico americano), «Lavoro Culturale», «Midnight», «O’ Magazine», «Atelier» e «Carmilla».

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