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Claudia / Un racconto di Antonio Giugliano


Era una gaucha, Claudia. Aveva gli occhi piccoli, a mandorla, castani, con delle macchioline gialle e verdi che diventavano più evidenti quando il volto era in piena luce. Era orgogliosa e selvatica, femminile.

I suoi occhi mi riportarono in un balzo solo, in un singhiozzo di nostalgia, ai colori della campagna delle mie parti, marrone scuro, quando è tempo di rivoltarla con i grossi aratri montati sui trattori. Mi vennero in mente le foglie verdi dei pioppi che a novembre incominciano a ingiallire a lunghi filari ai lati delle strade, il principio dell’autunno gonfio di quella nostalgia che nemmeno la promessa di un vino rosso, forte, riesce a raddolcire.

Più tardi, molto più tardi, avrei capito che mi sbagliavo.

Nei suoi occhi nocciola c’era piuttosto il verde e il giallo del trito di yerba, quello con cui si prepara il mate; e se mai a una campagna Claudia avesse potuto farmi pensare era piuttosto quella appena ondulata del suo paese, prateria da cavalli e vacche, in quella regione che è limitata a ovest dal Rio Santa Lucia, a sud dal Rio de la Plata e che a est si allunga fino al rio Uruguay, dove incomincia la pampa, nella provincia di Santa Fé che da sola è più grande dell’Italia, dicono gli argentini, spacconi.

Ma Claudia non era argentina, era uruguaya.

E la terra di Claudia non era una pianura arida ma una campagna come le nostre, solo non di pioppi, ma di eucalipti giganteschi, dai tronchi chiari con macchie color cacao e dai rami a grappolo; stormi di cocoritos piccoli e verdi, dal ventre grigio scuro, sciamavano incessantemente da un albero all’altro, emettendo tutti insieme, in una gran confusione, il loro verso roco, assordante, nella calura ancora estiva del marzo australe.

Aveva zigomi sporgenti, Claudia, occhi piccoli e sguardo penetrante, la fronte alta e le labbra sottili; i capelli scuri, corti alla nuca, erano un po’ più lunghi sulla fronte, con la riga sul lato destro del capo. Gli orecchi erano piccoli e delicati. Un che d’infantile e di donna fatta allo stesso tempo. Che ti prendeva.

Indossava abiti di cotone da poco prezzo, come quello rosso a pois bianchi del primo giorno che la vidi, abbottonato sulla schiena e lungo oltre il ginocchio, quasi a mezza gamba, che terminava con una gran frangetta bianca. Le scarpe anch’esse povere, di tela rossa con la suola di corda.

Ma Claudia non se ne curava. Le indossava con l’indifferenza di chi le usa, le scarpe, non si metteva in mostra attraverso le calzature e si vestiva solo perché farne a meno sarebbe stato complicato. E sì che un bel vestito e belle scarpe a chi non piacerebbero? Ma senza si viveva lo stesso, perché erano altre le cose che contavano.

Sapeva fissare un uomo dritto negli occhi fino a che il tizio non abbassava lo sguardo. Era la donna che sapeva dire no a un uomo aggrottando appena le sopracciglia. E se non capiva, cavoli suoi. Ne era fiera.

Il primo ricordo di lei è il momento in cui sono arrivato da Montevideo, quando entro nella sala da pranzo dell’estancia, con i tavoli che non sono altro che assi di legno piallato, forse è tiglio forse quercia, di colore scuro, inchiodati su paletti fissati a una traversa a U capovolta, appoggiati sulle mattonelle di argilla consumate, irregolari e rustiche, ma pulite.

«Hola! Buenas dias!» le dico, cordiale.

E lei mi domanda da dove sono venuto, se sono io l’italiano che aspettano.

È ironica quando dice:

«El Tano?»

Come se mi dicesse: ma chi ti credi di essere! Sai quanti ce ne siamo mangiati di Tanos, fritti nelle tartas e innaffiati col mate?

Sa già che ho capito. Le piaccio. Non sa perché ma le piace el Tano, e nemmeno io so perché mentre la guardo negli occhi i miei occhi le fanno una proposta antica, che finge d’ignorare ma che accetterà. O forse io lo so: perché ho notato la sua figura agile, la vita sottile, e ho apprezzato in un istante le sue gambe snelle, le cosce e le anche tonde e insellate.

«Le gusta mate?» mi chiede.

«Claro que si…» le rispondo.

Mi sorride.

«Entiende nuestro idioma?»

«Un poco, si...»

«Un poco?...»

«Siempre hay que aprender en la vida, verdad?»

«Claro claro»

È come se mi avesse chiesto se mi piace e se voglio farlo con lei. Ostenta la falsa cortesia di chi accoglie il forestiero e insieme il cliente. E così mi offre il mate. Con la pipa di acciaio inox: quando versa l’acqua bollente fa attenzione a che la pipa non diventi rovente.

Comincio a succhiare la bevanda dalla pipa e le chiedo:

«No tomas mate, tu?»

«Ahora no»

«Porqué?»

«Estoy de trabajo...»

«Ya».

Quando ho finito di bere, mi fa fare il giro dell’estancia e mi porta alla mia camera. Con bagno. Stesse pianelle di mattoni dappertutto, senso di pace, antico e rustico, di quiete. Fa caldo ma si sta bene. Si sentono le voci dei lavoranti che aspettano i turisti per fargli fare in carretta il giro della proprietà. Non guardo fuori della finestra, non lo fa nemmeno lei. Non parliamo. Sento un nodo alla gola. Qualcosa che devo assolutamente fare. Forse anche lei lo sente, è tesa, quasi pallida. Poso in terra la valigia. La guardo. Mi guarda un solo istante, poi volta la testa. Mentre si gira per andare verso la porta la afferro per un braccio e avvicino la mia bocca alla sua, esito un attimo e noto le sue narici che si dilatano: è l’emozione, è il sesso, è la voglia; la bacio, mi bacia, si divincola. La riafferro e stavolta la bacio a lungo. Mi bacia di nuovo. Poi si stacca, mi guarda e i suoi occhi mi implorano, si scioglie dall’abbraccio ma prima di chiudere la porta mi guarda fisso. Il cuore mi batte forte. Immagino che anche a lei stia accadendo la stessa cosa, che stia sentendo le stesse sensazioni. Lascio che chiuda la porta. Mi sdraio sul letto. Mi accendo una sigaretta. Mi ha piantato una freccia nel cervello. Mi rilasso. Mi sforzo di non pensarci. Mi lascio rallentare dal silenzio della campagna, che non è propriamente silenzio e che non è rumore. Ancora voci, in cortile, e un cane che abbaia lontano. Ruote di carretta. Aspetterò la notte, so che già la sto aspettando. So che questo sta succedendo anche a lei.

Al centro del salone salutai i gauchos che stavano bevendo mate, mi avvicinai a Don Pedro e gli strinsi la mano:

«Como le va?» mi chiese.

«Bien, gracias...»

«Le gusta su habitación?»

«Me encanta...»

Non poteva immaginare, Don Pedro, che quella notte stessa avrei scopato per ore con sua figlia.

Non poteva sapere che avremmo ansimato nella lunga corsa notturna, che avremmo riposato insieme e che al mattino, solo allora, appena prima dell’alba, l’avrei lasciata libera dal morso, con la promessa di riprendere il viaggio la notte seguente.

Veniva alla mia porta. Non bussava. Non chiudevo a chiave.

«Claudia, Claudia…» sospiravo.

«Tano, oh, Tano!» diceva.

È femmina. Lo è tanto che i mattoni del pavimento fremono dalla voglia di spavimentarsi quando cammina per la sala da pranzo senza mutande, perché le ho proibito di portarle, a piedi nudi, la gonna rossa a pois scossa dal passo svelto, mentre ordina i tavoli del ristorante.

«Dime que sos mi macho!» spasimava, la notte.

Le leccavo il sesso mielato come i cavalli leccano quello delle giumente. Alzavo un momento la testa, la guardavo negli occhi e le dicevo:

«Soy tu macho».

«Soy tu hembra», rispondeva, guardandomi negli occhi.

Si mordeva il labbro inferiore, con le unghie mi graffiava le braccia e la schiena, per lasciarmi il suo segno; si afferrava al materasso. Era la prima donna che avevo dopo infinite puttane. Era vera. E dopo stavo bene. Con la sigaretta accesa, guardavo il soffitto di travi di legno. Ero perduto in un sogno. Non m’interessavo più del passare del tempo.

Non avevo pensato di fermarmi là, come non avevo mai pensato di fermarmi in nessun posto. Ma per la prima volta nella vita mi sorpresi a pensarlo. Mi piacevano le sue mani delicate e irruvidite dai lavori domestici, Mi piaceva che mi parlasse di quando era bambina e di sua madre morta tanti anni prima. Allora diventava triste, e io la stringevo a me, forte, e le dicevo le parole più dolci che sapevo trovare. Mi sorprendevo a pensare a che regalo le sarebbe piaciuto ricevere; qualcosa che fosse semplice e prezioso allo stesso tempo. Qualcosa che le dicesse quanto era diventata importante per me. Ma se le avessi regalato un anello d’oro non l’avrebbe accettato, perché un anello d’oro è un pegno e ce ne vogliono sempre due. D’altra parte, non mi veniva in mente niente. E lei non chiedeva niente. Così rimandavo; ma sentivo che non avrei potuto rimandare a lungo, dovevo decidere.

A volte, per pensare in pace, me ne andavo a passeggiare fino alla foce del Rio Santa Lucia. Non avevo mai immaginato che ci potesse essere un fiume, già grande, che sfocia in un altro fiume ancora più grande.

Non ci sono paludi da quelle parti, e il Rio de la Plata è talmente grande da sembrare un mare. Placido. Non vedi l’alta sponda nemmeno se sali sulla Fortaleza del cerro a Montevideo, e solo perché lo sai immagini l’altra sponda a cento chilometri di distanza: un altro paese, altra gente, altra storia e la stessa storia; altro dolore e altra miseria, la stessa miseria. Il Santa Lucia sembra un piccolo leone sul ventre della madre sdraiata di fianco. Un senso d’immensità e di pace.

Dovevo fare il grande passo, o andarmene.

Un paio di settimane dopo affittai una vecchia casa, una stalla leggermente restaurata. Un piano terreno con una gran sala con focolare e cucina, e un primo piano per la stanza da letto e il bagno. C’era anche una bella scala interna di legno, che dovetti sistemare. I muri erano grossi, di pietra, e il pavimento era di mattoni, consumati dal tempo e dai passi degli uomini e delle donne che l’avevano abitata prima. Le pareti e il soffitto erano intonacati a calce. La ripulii, aggiustai il tetto e il letto di legno e comprai un materasso nuovo.

Era fresca d’estate, la mia casa; e d’inverno avrei tenuto sempre acceso un bel fuoco. Firmai il contratto con la società elettrica e con quella dell’acqua. Rifeci il bagno con una bella doccia. Claudia mi aiutò ad arredarla.

Eravamo felici. Sapevamo che qualcosa sarebbe accaduto ma non facevamo nulla di proposito perché accadesse. La nostra intesa era silenziosa, avevamo il necessario, troppe parole erano superflue. Il tempo passava e quella cosa cresceva in noi. Senza fretta, come senza fretta passano le stagioni, un giorno dopo l’altro, un’ora dopo l’altra, un cielo dopo l’altro.

Passò qualche mese ancora e venne l’inverno. Pioveva quasi ogni giorno.

Una notte, dopo che avevamo fatto l’amore, mi disse che non aveva più voglia di tornare a casa da suo padre a raccontare bugie.

Eravamo sdraiati sul fianco, di fronte uno all’altra.

Mi guardò negli occhi:

«Hace frio cuando me voy. Quiero quedarme aqui», disse.

La guardai negli occhi e mi persi in quelle foglioline gialle e verdi.

Le accarezzai la guancia.

«Está bien, Claudia... quieres que mañana vamos a hablar con tus padres?», le chiesi.

«Sì».

«Despues vamos hasta Montevideo y nos compramos dos anillos».

«No tienes ninguna obligación conmigo, Tano».

«Cual te gusta más, de oro o de plata?»

«Lo de fuego que no muere».

Le strinsi forte i capelli e accostai la bocca alla sua per baciarla. Mi morse il labbro prima di lasciarsi andare. Poi si addormentò abbracciandomi e stetti per un po’ a guardare il soffitto e la finestra. Mi sentivo quieto per la prima volta dopo chissà quanto tempo. L’accarezzai mentre dormiva e pensai che ne fosse proprio valsa la pena di aver fatto tutti quei chilometri per arrivare da lei. Mi addormentai. Ero arrivato anch’io, alla fine, alla mia meta. Gli altri se li erano portati via le sbronze e il diavolo.

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